venerdì 30 novembre 2012

RIFLESSIONE 30/11/2012


SACRA SCRITTURA 
Sir 29,21-28:[21] Indispensabili alla vita sono l'acqua, il pane, il vestito 
e una casa che serva da riparo. [22] È meglio vivere da povero sotto un tetto di tavole, 
che godere di cibi sontuosi in case altrui. [23] Del poco come del molto sii contento, 
così non udirai il disprezzo come straniero. [24] Triste vita andare di casa in casa, 
non potrai aprir bocca, dove sarai come 
straniero. [25] Avrai ospiti, mescerai vino senza un grazie, inoltre ascolterai cose amare: [26] "Su, forestiero, apparecchia la tavola, 
se hai qualche cosa sotto mano, dammi da mangiare". [2] "Vattene, forestiero, cedi il posto a persona onorata; mio fratello sarà mio ospite, ho bisogno della casa". [28] Tali cose sono dure per un uomo che abbia intelligenza: i rimproveri per l'ospitalità e gli insulti di un creditore. 

CARISSIMI,
OGGI LEGGEVO SULL'OSSERVATORE ROMANO DI MARTEDì 27 NOVEMBRE 2012:

Dopo aver portato a termine con
successo il rastrellamento e la
deportazione ad Auschwitz di
1.022 ebrei romani, il reparto
specializzato del capitano Theodor
Dannecker risalì rapidamente la penisola
per effettuare analoghe retate a sorpresa nelle
principali città italiane, seguendo il medesimo
cliché sperimentato nella capitale. Tuttavia,
poiché dopo la razzia nel ghetto di Roma
Dannecker si era ammalato, la guida dell’organizzazione
passò nelle mani del suo vice,
Alvin Eisenkolb, il quale subito prese di mira
Firenze che, così, pagò il suo atroce tributo
alla Shoah subendo ben due rastrellamenti il
6 e il 26 novembre 1943.
L’11 settembre, a distanza di appena tre
giorni dalla proclamazione dell’armistizio, i
tedeschi occuparono manu militari il capoluogo
fiorentino scatenando immediatamente,
con la complicità del famigerato Reparto Servizi
Speciali diretto dal maggiore Mario Carità,
una feroce caccia all’uomo ai danni di tutti
gli ebrei che si trovavano a Firenze, compresi
i profughi appena giunti dai Paesi limitrofi occupati
dai nazisti con la speranza, destinata
purtroppo a rivelarsi vana, che la loro
sorte in Italia potesse essere migliore. A spianare
la strada alle retate delle SS contribuì in
modo rilevante anche la legislazione antisemita
adottata dalla Repubblica Sociale Italiana
con l’emanazione della Carta di Verona che al
capitolo settimo considerava gli ebrei «stranieri
e parte di una nazione nemica», disponendo
persino l’internamento in appositi
campi predisposti dal Ministero dell’Interno.
In tal modo tutti gli ebrei vennero braccati,
arrestati e reclusi alle Murate, a Santa Verdiana
o nei vari campi di internamento, come
quello di Villa Le Selve presso Bagno a Ripoli,
prima di essere deportati verso i campi di
sterminio nazisti.
Con l’incalzare delle persecuzioni antiebraiche,
dopo aver appreso da alcuni amici della
polizia e del Comitato di liberazione nazionale
che i tedeschi avevano richiesto gli elenchi
di tutti gli ebrei fiorentini, il Comitato di assistenza
ebraico, allestito dal giovane rabbino
capo di Firenze Nathan Cassuto, d’intesa con
Matilde Cassin, visto che ormai da soli non
riusciva più a far fronte alle continue richieste
che provenivano dai tanti profughi ebrei, decise
di rivolgersi alla curia fiorentina con la
quale allacciarono i primi contatti tramite
Giorgio La Pira, che allora dimorava nel convento
domenicano di San Marco.
L’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia
Dalla Costa, subito incaricò il parroco di Varlungo,
don Leto Casini, e il padre domenicano Cipriano Ricotti di coadiuvare il Comitato
di assistenza ebraico (che agiva da terminale
degli aiuti internazionali forniti dalla Delegazione
per l’assistenza degli emigranti ebrei, la
Delasem) per mettere al sicuro i profughi
ebrei nei vari monasteri e istituti religiosi della
diocesi. «Fu così che una mattina degli ultimi
di ottobre del 1943 — scrive nel suo memoriale
don Leto Casini — Mons. Meneghello
presentò don Casini al Comitato comprendente
il rabbino di Firenze Dr. Nathan Cassuto,
il Rag. Raffaello Cantoni, Giuliano
Treves, Joseph Ziegler di origini ungheresi,
Kalberg, Matilde Cassin, le sorelle Lascar e
due altri dei quali sfugge il nome. Furono di
valido aiuto il domenicano P. Cipriano [Ricotti],
don Giovanni Simeoni e, naturalmente,
Mons. Meneghello che, tramite il noto ciclista
Gino Bartali, riuscì a procurarsi le carte
d’identità opportunamente falsificate con la
macchina Felix della tipografia di Luigi Brizi
di Assisi, per gli ebrei nascosti nei vari conventi
di Firenze. Il Comitato si riuniva tutti i
giorni — continua don Leto — tanti erano i
problemi che si presentavano e urgeva risolvere.
Il luogo delle riunioni veniva cambiato
spesso per evitare pericoli di pedinamento.
Nella cappella degli Orafi, presso la Chiesa
dei Santi Stefano e Cecilia, don Casini riuniva
settimanalmente gli Ebrei fiorentini per informarsi
delle loro necessità e distribuire denaro
ai più bisognosi. Il denaro occorrente
per sopperire alle innumerevoli necessità — si
doveva provvedere vitto, alloggio, indumenti,
medicinali, carte d’identità (naturalmente false)
a diverse centinaia di persone — veniva
versato a don Casini dal ragioniere Cantoni».
Di tutto ciò si occupava anche un piccolo
gruppo di giovani che si riuniva nei locali
della Libreria Editrice Fiorentina per procedere
alla falsificazione dei documenti che poi
venivano distribuiti agli ebrei. A quel punto,
seguendo alla lettera le direttive impartite dal
cardinale Dalla Costa, nel capoluogo fiorentino
e nei suoi dintorni, oltre ventuno conventi
e istituti religiosi (senza contare le varie parrocchie)
spalancarono le porte per offrire rifugio
a oltre 110 ebrei italiani e 220 stranieri.
Quanto andiamo dicendo trova puntuale
conferma anche dalla testimonianza di padre
Egidio, un anziano monaco dei carmelitani
scalzi, dal quale apprendiamo che nella biblioteca
del convento di San Paolino a Firenze
(dove nel 1936 Bartali aveva preso i voti di
terziario carmelitano) negli anni 1943-1944 «si
riuniva il Comitato di liberazione nazionale e frazione
del comune di Palazzuolo sul Senio
in provincia di Firenze che, fin dal settembre
1943, era stata inclusa nella lunga lista da
consegnare agli ebrei che chiedevano asilo.
«Nuovo sangue — scriveva il 15 settembre
la cronista del santuario di Santa Maria della
Neve — si è già cominciato a spargere. I migliori
cittadini cercati a morte. Anche il nostro
convento viene adocchiato da Sua Eminenza
il Cardinale (Dalla Costa) per nascondere
i perseguitati. Oggi arriva da noi il Prof.
Levi. È un vecchietto il quale ha speso tutta
la sua vita nello studio e nella scuola. È cercato
perché di razza ebraica. Da oltre dieci
anni si è convertito al cattolicesimo (...). I
suoi articoli venivano pubblicati perfino
sull’Osservatore Romano. La nostra Madre
Generale lo ha accolto tanto volentieri pur sapendo
che prestarsi a tale atto vuol dire mettere
in pericolo la vita (...) La B. V. di Quadalto
ci proteggerà perché facciamo un’op era
buona: proteggiamo i perseguitati per amore
della giustizia». Difatti, avendo constatato di
persona durante la vista pastorale del 22 agosto
la sicurezza del luogo, il cardinale Dalla
Costa si rivolse alla madre generale, suor Teresa
Serantoni, per chiederle la disponibilità
ad accogliere nel suo convento quanti rischiavano
la vita a causa delle persecuzioni dei nazi-
fascisti, raccomandando in modo particolare
il professor Giulio Augusto Levi che
all’epoca, come scrisse Gentile, era considerato
«uno dei più valenti interpreti del pensiero
leopardiano». Tuttavia, in seguito alle leggi
si tennero nascosti per vario tempo,
due giovani di origine ebraica». Grazie
a questa sofisticata rete clandestina
di assistenza, che poteva contare
su un’organizzazione ben collaudata
che collegava (come in questo caso)
la Delasem con la curia genovese e
fiorentina, furono salvati dalla deportazione
diversi ebrei, nascondendoli
in conventi e istituti ecclesiastici
come la casa madre delle francescane
ancelle di Maria di Quadalto, una
razziali, nel 1938 gli era stata revocata
la cattedra di letteratura italiana
presso il liceo-ginnasio Galileo
di Firenze costringendolo alla
clandestinità insieme alla famiglia.
Fin dal settembre 1943 cominciarono
ad affluire a Quadalto,
presso il santuario di Santa Maria
della Neve, molte persone, in prevalenza
ebrei, tra cui anche Eugenia
Levi, figlia minore dell’insigne
critico letterario, per trovare riparo
in quel monastero sebbene, come
scriveva la cronista, «crescendo
il numero degli ebrei ricoverati
cresceva la probabilità che questi
venissero scoperti e quindi di conseguenza
che la nostra buona Madre
Generale venisse arrestata e
condannata».Il 17 ottobre, subito dopo aver appreso
dell’efferata razzia che si era appena
consumata nel ghetto di Roma, raggiunsero il
professor Levi e la figlia Eugenia anche la
moglie e l’altra figlia Sara. Appena giunte,
però, appresero che, per precauzione, i loro
cari avevano lasciato il convento per recarsi
dal priore di Mantigno, don Primo Grandi.
Era accaduto, infatti, che il 10 ottobre Levi ed
Eugenia incautamente si erano fatti vedere in
chiesa e subito si era sparsa la voce che nel
convento dimorava un vecchio con una signorina.
Così, nel timore di qualche prevedibile
delazione, si ritenne opportuno trasferire i
due presso il priore di Mantigno che, insieme
alla contessa Strigelli e ai suoi figli, si prodigava
per tenere nascosti inglesi e ricercati dai
nazifascisti.
Benché ancora affaticate per il lungo viaggio,
la moglie di Levi e la figlia Sara decisero
dunque di raggiungere subito i loro cari ma,
giacché don Grandi non poteva ospitarli, di
comune accordo tutti insieme fecero di nuovo
ritorno a Quadalto. «Cosa fare? — si chiedevano
le suore — Lasciarli sulla strada? Mandarli
di nuovo in giro col pericolo che vengano
scoperti e arrestati? E quel che peggio in
un campo di concentramento? Vengono narrati
fatti atroci accaduti a questi poveri meschini.
Scoprirli è facile perché basta che facevano vedere la loro carta di identità e il loro
cognome è quello che li accusa. La nostra
Madre Generale dopo aver tutto considerato
piena di fiducia nella Beata Vergine li alloggia
tutti e li nasconde nelle due camere del
secondo piano della foresteria».
Il 28 ottobre 1943 le ancelle di Maria nascosero,
per qualche giorno, anche due ufficiali
inglesi che erano diretti ad Ancona (dove speravano d’imbarcarsi per Bari) dopo essere
riusciti a evadere da un campo di prigionia,
grazie all’aiuto del figlio della contessa Strigelli,
Franco. Non fecero in tempo a salutare
gli ufficiali inglesi che, il 31 ottobre, accompagnato
da suor Domenica Ricciarelli, sopraggiunse
l’arciprete di Lagosanto don Giuseppe
Folegatti, costretto a fuggire perché ritenuto
un fiancheggiatore della brigata M. Babini e
per questo accusato di antifascismo. «Narra
una storia dolorosa — si legge nelle cronache
conventuali — Il Federale di Ferrara (Igino
Ghisellini) il 24 corrente era stato a trovar(lo)
in canonica e gli aveva detto che se entro una
settimana non avesse fatto propaganda fascista
e tedescofila per lui sarebbe stato troppo
tardi e non avrebbe avuto più tempo per rimediare.
La sua coscienza si ribellò a tale
proposta e senz’altro disse che non poteva accettare.
Domenica 31 verrò di nuovo soggiunse
il Federale e farò quello che dovrei fare in
questo momento».
Costretto a far perdere immediatamente le
proprie tracce, con il beneplacito del suo vescovo,
monsignor Paolo Babini, don Giuseppe
Folegatti decise di rifugiarsi a Quadalto,
presso il santuario di Santa Maria della Neve.
Nel frattempo, il 14 novembre, mentre i nazifascisti
a Firenze avevano sferrato la prima
ondata di rastrellamenti, inaspettatamente,
verso mezzanotte le suore furono svegliate di
soprassalto da una insistente scampanellata.
Con una certa inquietudine si precipitarono
alla finestra, da dove riuscirono a scorgere un
uomo e una donna che, alquanto concitati,
chiesero loro: «È qui il Prof. Levi con la sua
famiglia?». «Non conosciamo il Prof. Levi; e
in Convento non vi è alcun estraneo», tagliò
corto suor Teresa Serantoni. «Non tema buona
sorella, ci apra — replicò il misterioso interlocutore
— Sono il fratello del Prof. Levi e
questa è la mia figliola. Sappiamo di certo
che mio fratello con la sua famiglia è qui».
Nel frattempo i familiari del letterato, sentendo
bisbigliare, si avvicinarono per cercare di
capire cosa stesse succedendo. Appena intuirono
di chi si trattava, fecero un cenno alle
suore per confermare che quanto asserivano
rispondeva al vero, pregando la madre superiora
di ospitare anche loro nel convento.
Anche stavolta suor Teresa accettò di buon
grado, sebbene, come sottolineava la cronista,
la faccenda incominciasse ad assumere dei risvolti
preoccupanti, visto che a «Firenze si
da(va) caccia spietata agli ebrei e ci p(oteva)
stare che qualcuno a(vesse) visto questi due
smontare dalla Corriera di Palazzuolo e venire
da noi. (...) Siamo molto in pensiero per
questa famiglia di perseguitati che possano
venire scoperti da un momento all’altro —
continua la religiosa — e siamo anche molto
in pensiero per la nostra Madre Generale perché
basta che l’arrestino perché muoia essendo
malatissima e non potendo il suo debolissimo
fisico sopportare un viaggio in un camion
e la reclusione in una prigione».
Il sinistro presagio si materializzò qualche
giorno dopo, il 17 novembre, allorché si presentò
in convento una spia fascista, il maresciallo
dei carabinieri Mariottini che, con tono
intimidatorio, disse alla madre generale:
«Circolano voci in paese che voi alloggiate in
convento una famiglia di ebrei». Senza alcuna
esitazione, con tono compito e al tempo
stesso perentorio, suor Teresa replicò: «In
convento io non ho persona alcuna. Venga
pure a perlustrare il convento e si convincerà
di quanto affermo». «Vi avverto — re p l i c ò
l’uomo — che se ciò fosse vero mettereste in
serio pericolo la vostra vita perché le leggi vigenti
sono severissime a questo riguardo».
Appena vide che il sottufficiale visibilmente
corrucciato lasciava il convento, l’audace religiosa
si precipitò da Levi per esortarlo a fare
presto le valigie: quel luogo ormai non garantiva
più alcuna sicurezza. Scrive angosciata la
cronista: «Piove. L’unica strada è quella di
prendere per Lozzole e arrivare a Marradi.
Strada pericolosa quella di Lozzole con un
buio così pesto colla pioggia che ha reso il
viottolo sdrucciolevole. Il Professore è vecchio
ormai cadente e una delle figlie è febbricitante.
Decidono di partire e lasciare qui la
sposa del Professore perché ammalata e incapace
di far tanta strada a piedi. La separazione
è dolorosissima tutti piangono».
A ogni modo, in quella stessa notte, inerpicandosi
per i sentieri di montagna sotto la
pioggia battente, riuscirono a raggiungere alle
prime ore del mattino Marradi per trovare un
nascondiglio sicuro nei pressi di Firenze. Eugenia
e Sara furono, infatti, ospitate in un
convento di suore, mentre «il professore si
nascose nel Ricovero dei vecchi mendicanti a
Firenze». Anche l’altra casa delle ancelle di
Maria di Coverciano-Firenze, guidata dalla
madre superiora suor Candida Resta, si adoperò
in quest’opera di carità per cercare di
mitigare «l’odio cieco, implacabile, indiscriminato
» e la lunga scia di sangue che lasciava
dietro di sé l’atroce vendetta dei nazifascisti.
«Tragici furono i giorni del dolce settembre
fiorentino e quanto mai doloroso fu l’autunno
1943. (...) Così, per quelle porte sempre arditamente,
sempre fraternamente aperte, passarono
uomini messi in fuga dalle indiscriminate
retate; soldati scampati alle deportazioni;
compromessi politici braccati con orribile bramosia
di vendetta; ebrei perseguitati senza sosta;
anime in pena in cerca di scampo; superstiti
terrorizzati dai bombardamenti; giovani
insofferenti di vestire una divisa che li avrebbe
messi al servizio del nemico e dei fascisti
fratricidi; vecchie inglesi e vecchie americane
ammalate o inferme, destinate ai campi di
concentramento; innocenti minacciati da orribili
rappresaglie. (...) La dolce Casa (...) accolse,
soccorse, confortò, ospitò, con imperturbabile
calma, consapevolmente incurante
del pericolo a cui esponeva, in quel triste
tempo, ogni forma di pietà. (...) le soccorrevoli
porte continuarono perciò a rimanere
confidentemente aperte e nessuna restrizione
fu imposta neppure agli ospiti più indiziati e
più attivamente ricercati».
Alle tre del mattino del 27 novembre 1943,
dopo aver tratto in arresto i membri del Comitato
di assistenza ebraico-cristiano nella sede
fiorentina dell’Azione Cattolica, in via de’
Pucci al civico 2, un’altra pattuglia di circa
trenta SS, coadiuvati dai miliziani fascisti, in
seguito alla delazione del segretario di Joseph Ziegler (tale Marco Ischio) diedero
libero sfogo alla loro violenza
non risparmiando neanche i luoghi
sacri, dove erano convinti di
scovare gli ebrei nascosti con la
complicità delle religiose.
La razzia più 
efferata si rivelò
proprio quella perpetrata nel convento
delle suore francescane missionarie
di Maria di piazza del
Carmine, guidato all’epoca dalla
giovane madre superiora suor
Sandra (al secolo Ester Busnelli)
che, accogliendo l’invito del cardinale
Dalla Costa, aveva spalancato
le porte del convento a una cinquantina
di donne, quasi tutte
profughe ebree, con i loro bimbi,
tra cui la moglie del rabbino capo
di Genova, Wanda Abenaim Pacifici,
e i figli Emanuele e Raffaele. «Le Ebree nel salone sono prese come topolini
nella trappola — scrive la cronista — e non
sanno riaversi dalla sorpresa. (...) Una ragazza
(Lea Lowenwirth-Reuveni) tenta di fuggire
saltando dalla finestra ma è subito raggiunta
da un SS». Difatti, nel frattempo, la responsabile
del pensionato, suor Emma Luisa, appena
sentiti i rintocchi di campana, aveva tentato
«di farne fuggire parecchie [di loro] per
una porta segreta di clausura, che esse già conoscevano.
Sfortunatamente non arrivano in
tempo e sono prese».
Le donne ebree fermate dai tedeschi furono
tenute prigioniere nel convento con i loro
bambini per quattro giorni di fila, affidate in
custodia ai fascisti del famigerato Reparto
Servizi Speciali — meglio noto come Banda
Carità — i quali, la mattina del 30 novembre,
si lasciarono andare a ogni sorta di sopruso e
sevizia al punto che, «per avere due o tre ragazze
che essi pretendevano di avere (...) ci
fu una (...) che per salvare le ragazze si offrì
lei di darsi a quei fascisti, ed essi ne abusarono
in un angolo della stanza (...), però nessuna
fu liberata». Difatti furono dapprima recluse
nelle carceri fiorentine e poi trasferite a
Verona prima di essere instradate verso il
campo di Auschwitz-Birkenau da dove, purtroppo,
non fecero più ritorno.

Questo è ciò che lessi oggi e mi ha colpito un fatto:pensate che questa suora ha ospitato degli ebrei nel suo monastero e questa suora poteva anche essere uccisa perché aveva portato in casa degli ebrei,mentre i tedeschi li stavano cercando.
Vedete,se una persona crede fortemente nel Vangelo di Gesù commetterà anche delle pazzie agli occhi degli uomini ma agli occhi di Dio saranno delle opere di bene che questa persona ha compiuto verso il suo prossimo. Se infatti questa suora non avesse ospitato questi ebrei avrebbe fatto una cosa “giusta” perché i tedeschi non la potevano perseguitare,mentre facendo così poteva essere uccisa dai suddetti;ma il fatto è che se amate Gesù non dovete salvare la vostra vita,perché la perderete comunque!!!Infatti questa suora ha fatto ciò che sta scritto nel Vangelo:”CHI PERDERA’ LA VITA PER CAUSA MIA E DEL VANGELO LA TROVERA”ecco lei ha fatto. Poteva salvare la propria vita oppure amare il prossimo e ospitarlo,perdere la vita ma ritrovarlo in paradiso,quindi forse dovremmo imparare ad ospitare gli altri,anche se sono stranieri,perché siamo tutti uguali:NON CI SONO RAZZE!!!




AMEN

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